«Ogni volta che c’è un cambiamento importante, le imprese si trovano davanti ad processo difficile, perché devono adattare i modelli di business utilizzati in precedenza. Si crea così una discontinuità che può tradursi in un’impasse. Mi riferisco al salto dal grande ciclo di sviluppo delle Pmi del Nordest, fino agli anni ‘90 legato a una logica di distretto locale, al ciclo successivo, quello iniziato nel 2000, che si organizza intorno alle due variabili chiave della globalizzazione dei mercati e della digitalizzazione delle conoscenze. E’ una situazione nuova per i nostri distretti. C’è chi cavalca il cambiamento e chi lo subisce. Alcune delle nostre Pmi hanno imparato ad usare le conoscenze digitalizzate e sono diventate delle multinazionali tascabili, lavorando in ottica globale con reti lunghe. Ma ci sono tantissimi fornitori e produttori di servizi che, nei distretti, sono rimasti isolati, restando local e non global. Questa trasformazione cambia il mondo in cui vivono le imprese e le persone e dunque ridefinisce anche la sostenibilità. Nel bene e nel male».
In che senso ridefinisce la sostenibilità? Siamo arrivati ad un punto in cui il vecchio modello è diventato insostenibile?
«L’insostenibilità è un esito inevitabile, prima o poi, di tutti i processi che non sono in grado, o non si curano di ricostituire le proprie premesse. Per cui arrivano ad un certo punto del loro ciclo di sviluppo e si arrestano, avendo “consumato” alcune delle premesse (economiche, sociali, ambientali ecc.) che ne avevano incubato l’avvio. La prima fonte di insostenibilità con cui dobbiamo fare i conti è la modernizzazione stessa. Sono due secoli e mezzo che la modernità ha messo in campo una serie di automatismi (la scienza, la tecnologia, il mercato, il calcolo economico) che ottimizzano certe variabili poste al centro del loro campo di controllo, riversando la loro forza dissipativa su tutto ciò che, rimanendo all’esterno di quel campo, non è per loro visibile e non ha valore. Ad esempio, l’automatismo del mercato assicura l’efficienza dei mezzi ma non si cura degli effetti collaterali che ne conseguono, tra cui i danni all’ambente naturale e sociale, e alla salute delle persone. Fin dall’inizio la modernizzazione ha avuto conseguenze dissipative sulla vita sociale e sull’equilibrio naturale, arrivando nel secolo del fordismo a costruire una economia industriale totalmente artificiale (la grande fabbrica, gli standard, il lavoro ridotto a tempo-lavoro, i prodotti per i consumo di massa). Questa economia, come si vede in prossimità delle grandi concentrazioni industriali del passato, sovraccaricava l’ambiente e il sistema sociale, dando luogo a più di un fattore di insostenibilità. Fino all’esplosione della crisi delle grandi concentrazioni industriali negli anni settanta. Come rimedio, nel periodo 1970-2000 ha preso corpo una crescita lontana dalle precedenti concentrazioni industriali, e trainata, invece, dalle centinaia di micro-imprese sparse per la campagna, con addensamenti intorno ai diversi “campanili” che identificano i vari distretti industriali. Lo sviluppo ritrova così le risorse che l’insostenibilità del modello fordista aveva consumato: nelle aree rurali il territorio è abbondante e assorbe meglio i residui delle lavorazioni (fumi, rifiuti). L’agricoltura che libera una parte importante degli occupati fornisce manodopera in abbondanza. L’imprenditorialità nasce dal basso, di una società diventata più mobile e orizzontale. Ma si tratta di un rimedio temporaneo all’insostenibilità del fordismo. Trenta anni di crescita dei distretti industriali, dal 1970 al 2000, generano infatti una nuova, e diversa insostenibilità. Aumentando il numero e la dispersione delle fabbriche, alla fine il territorio si inquina in modo diffuso e la disponibilità di nuove aree termina. Anche il rischio idrogeologico aumenta per le alterazioni portate agli equilibri naturali delle aree investite dalla crescita distrettuale. Ad un certo punto, poi, il lavoro, che era inizialmente abbondante, diventa scarso, perché l’agricoltura ha ormai una riserva limitata di forza lavoro eccedente, in uscita. Persino la formazione di neo-imprenditorialità perde vigore, perché è diventato più difficile mettere su una fabbrica con innovazioni e investimenti che la rendano competitiva con le precedenti. Non è facile venirne fuori, perché l’insostenibilità è insita nella logica di funzionamento della modernità. Per ridurre i costi e aumentare la produttività, la modernità ci ha insegnato ad usare automatismi che presidiano l’efficienza, dissipando il resto. L’insostenibilità non è dunque una malattia venuta dopo, ma un difetto congenito della modernità, associato alla conoscenza riproducibile e ai suoi moltiplicatori. Nel Nordest essa si dilata attraverso la crescita inconsapevole degli effetti dissipativi. Un po’ come accade al calabrone di Giacomo Becattini (ndr Il calabrone Italia, Il Mulino, 2007) che non potrebbe volare se applicassimo le leggi della fisica, le piccole imprese nordestine sono andate avanti senza darsi carico dei fattori di insostenibilità da esse attivati. Oggi, il vecchio modello distrettuale è diventato insostenibile e richiede un nuovo modello produttivo. Un modello che tuttavia deve fare i conti con la globalizzazione dei mercati e con le nuove reti digitali».
Come uscirne?
«Se l’insostenibilità non è dovuta ad un fattore esterno o ad un errore di funzionamento, la soluzione è quella di rimettere in movimento il “motore” della produzione moderna guidandolo con una intelligenza sociale che lo faccia girare ad una buona velocità, ma rimediando o impedendo gli effetti dissipativi che esso crea. Questa intelligenza sociale deve dare peso non solo ai prodotti ottenuti, ma anche agli effetti collaterali che li accompagnano: il valore dei primi deve essere corretto dal disvalore dei secondi. O meglio: le persone e le comunità devono dare senso e valore alla sostenibilità, incentivando i produttori a rispettarne i requisiti. In genere è un compito che si delega allo Stato, senza considerare che, nel mondo moderno, la politica è il prodotto di un sistema disciplinato da regole, ossia è il prodotto di un automatismo (la macchina dello Stato è affidata a chi prende più voti). Dobbiamo creare intelligenza collettiva nelle comunità di senso, per guidare, con il valore da esse attribuito alla sostenibilità, gli automatismi dissipativi. Ci sono ormai le premesse perché questa nuova sintesi della modernità prenda corpo: lo vediamo ad esempio negli attuali distretti del legno ecologico, dell’edilizia sostenibile, dello slow food, dell’alimentazione sana ecc. Le capacità di creare intelligenza collettiva e valore legato al senso ci sono: dobbiamo imparare a diffonderle ed usarle».
Potrebbe una nuova alleanza tra efficienza industriale e sostenibilità ambientale rendere più competitive le nostre imprese verso più alti livelli di qualità e di valore, avvicinandoci a una società imprenditoriale consapevole, tanto per citare un altro suo libro?
«La traiettoria ci fa vedere un cambiamento nell’economia reale verso l’affermazione del valore guidato dal senso e dall’intelligenza collettiva. La qualità dei prodotti viene pagata ormai in funzione del significato che il prodotto ha per l’utilizzatore. E in questo significato rientra anche il governo dei fattori di insostenibilità. Il guaio è che spesso le persone coinvolte si muovono verso questa nuova regola, ma non ne sono consapevoli fino in fondo. Tuttavia, lo diventeranno presto, perché la creazione di un’intelligenza collettiva consapevole è l’unico modo di gestire il rischio crescente che avremo davanti nel prossimo futuro. Gestire il proprio futuro a rischio è ormai una questione che riguarda tutti: il singolo imprenditore o lavoratore, il risparmiatore e in fondo la società nel suo insieme. Nel nostro secolo il mondo è e rimarrà strutturalmente instabile: a causa, certo, dell’insostenibilità che caratterizza la crescita e gli automatismi che la promuovono. Ma anche per altre cause. La globalizzazione non governata produce infatti un mondo strutturalmente instabile. Lo stesso effetto è prodotto dalla crescita degli investimenti immateriali (in conoscenza e in relazioni) cui vengono attribuiti oggi valori (in borsa ad esempio) in base ad aspettative future non fondate e non fondabili. Il risultato è che i rischi, oggi, sono tali che non possono essere più addossati alle imprese che non sono in grado di sopportarli e tendono a ridurli drasticamente, smettendo anche di investire, di assumere (i contratti di lavoro dipendente creano costi fissi). Così preferiscono i fornitori esterni, e non crescono per rimanere flessibili. Il problema non si può rimandare allo Stato, perché oggi è esso stesso sottoposto a rischi che vanno ridotti, per non diventare incompatibili con livello elevato del debito. L’unico modo per non farci paralizzare dai rischi è condividerli, ognuno assumendosi la responsabilità di un segmento di un processo di crescita».
Quali i passaggi in termini di sostenibilità che le imprese dovranno sempre più compiere nel futuro per varare nuove strategie?
«L’impresa non deve più vendere il mobile ma “l’idea” del mobile o della casa. Un concept di prodotto che comprenda anche il suo rapporto con l’ambiente, con il territorio. Oggi con la nuova sensibilità nata nelle comunità di senso le imprese non vendono solo prodotti ma anche significati. Per esempio per un prodotto fatto senza sfruttare il lavoro minorile o senza distruggere le foreste, il cliente è disposto a pagare di più. Oggi la mela ecologica è più bruttina, ma vende di più. Questo è un valore legato al senso. I vegani, ad esempio, sono una comunità di senso. L’attenzione alla sostenibilità corrisponde a una nuova etica comune, e alimenta l’intelligenza collettiva che assegna un valore non marginale alla sostenibilità».
A quali settori le nostre industrie dovrebbero guardare con maggiore attenzione?
«Le nostre industrie dal punto di vista dello sviluppo possibile sono condizionate da un passato a due facce. Per un verso ci avvantaggia, perché mette in campo l’intelligenza di molte migliaia di imprenditori, ciascuno dei quali contribuisce al risultato con le sue idee e le sue energie. Per un altro, registriamo carenze importanti quando ci confrontiamo con il nuovo contesto competitivo globale/digitale di oggi. I nostri difetti sono noti. Non conosciamo l’inglese, non ci muoviamo nel mondo, stiamo a casa con i genitori fino a 25 anni. Si percepisce uno svantaggio nelle relazioni globali e non siamo capaci di codificare le conoscenze in modo da ri-usarle con i mezzi digitali e nelle reti globali. Insomma, siamo anarchici (più degli altri). Per rimediare al discreto caos che domina la nostra vita quotidiana, tutti i giorni ci inventiamo soluzioni nuove, mentre in altri Paesi, nel Nord Europa per esempio, c’è l’abitudine a vivere in modo maggiormente programmato e codificato: tutti seguono le regole e l’ordine che ne discende semplifica la vita di ciascuno. I primi settori a cui guardare per recuperare la competitività in futuro sono quelli che ci impongono di superare il deficit di digitalizzazione e di globalizzazione. I nostri imprenditori vivono di ‘genio e sregolatezza’, inventandosi la giornata. È una cultura nazionale, c’è molta intraprendenza personale che altri non hanno. Questo può diventare un vantaggio purché superiamo l’individualismo e investiamo sul capitale umano. Per vivere e lavorare nel mondo globale/digitale di oggi, ci vogliono più ingegneri, più informatici, l’apprendistato, la formazione dei lavoratori. Il primo passaggio è superare divisioni nella gestione del rischio, essere in grado di gestire i linguaggi formali per codificare le conoscenze, essere più internazionali e più globali. Paradossalmente, in Italia c’è il maggior tasso di cellulari in rapporto alla popolazione e il minor tasso di computer che nel resto del mondo. Abbiamo la creatività, la voglia di comunicare e di stare in relazione: ci mancano gli investimenti che possono rendere queste capacità compatibili con le reti globali e le conoscenze digitali. Ma ce la possiamo fare, seguendo i “pionieri” che già hanno esplorato il campo. Con successo».